di STEFANIA PIAZZO – Su Carlo Cattaneo vige nel nostro Paese la più totale ignoranza. E censura. Dolosa. Di lui si legge solo, a volte e non sempre, nome e cognome sui libri di storia. Le 5 Giornate, fine e morta lì. Un eccesso di non legittima difesa di uno stato bugiardo nello scandire la storia, e nel tenere lontano dai vivi persino i morti che ancora temono.
Non un cenno a questo monumento simbolo dell’intraprendenza intellettuale lombarda, del coraggio solitario, ma forse bisognerebbe aggiungere dell’indole svizzero-lombardo-veneta. Che racchiude un’identità, una nostalgia e una speranza. Se poi capita, come capitò alla sottoscritta, di farne una tesi di laurea, dedicata agli scritti letterari e critici di questa sconfinata mente moderna, può anche succedere che i docenti ti interroghino sul perché proprio Cattaneo…
“Ma lei dove lavora?”, fu la domanda che avanzarono in sede di discussione di laurea! “Lo fa perché è vicina alla Lega?”. Veramente studio Cattaneo per la sua visione rivoluzionaria della democrazia: il federalismo!
E quindi, perché stupirsi se, persino in ambito accademico, su Cattaneo pesa ancora il pregiudizio della storia scritta dai vincitori! Quindi ben venga tutto ciò che apre la mente del cittadino a spazzare via il rito abbreviato dettato dall’ignoranza e dall’arroganza di una cultura salottiera di sinistra che si accontenta di leggere la storia sulle lapidi scritte dalla storiografia piemontese prima e fascista poi. Tanto, sia destra che sinistra sono nazionaliste e patriottiche.
Ecco perché quando l’amico Romano Bracalini, giornalista, scrittore, storico mi ha detto, “ecco, tieni, questo è il mio ultimo Cattaneo”, intendendo l’ultima fatica aggiornata della storia di un uomo che, nel sottotitolo del libro racchiude non a caso “il sogno dell’Italia federale e dell’autonomia dei popoli”, non potei che essere felice di scrivere ancora di lui, di un’impresa interrotta da un’Italia matrigna e infedele. Si poteva capire allora, ma non oggi. Il silenzio è da stato di polizia, da persecuzione verso il reato di opinione diversa dalla vulgata storica.
Bracalini racconta il dramma di un paese senza padre. Solitamente la patria potestà è cosa certa, ma l’Italia è figlia di più interessi, non di rivoluzione di popolo o di una borghesia illuminata. Per questo il corpo estraneo di Cattaneo fu costretto all’esilio. Già allora i cervelli erano costretti a darsi alla fuga. E lui fu la prima vittima eccellente di un sistema politico scadente, di una burocrazia avvilente, di una educazione assente.
“Cattaneo, il sogno dell’Italia federale e dell’autonomia dei popoli” per i tipi della Libreria San Giorgio (edizione riaggiornata della già fortunata uscita per Mondadori), ripercorre in modo lapidario, già nel titolo del primo capitolo, il destino del nostro autore: “Bestemmiato e pianto”. Forse quando Bracalini pennella il rientro a Milano della sua salma nel 1869, viene un sussulto di speranza. Perché i milanesi, allora, ignorarono l’ordine del prefetto di non chiudere i negozi. Fu una fiumana umana di tributo a Cattaneo.
Oggi i milanesi, i lombardi, sarebbero capaci di rifiutare un’ordinanza prefettizia?
Ma andiamo avanti… “Da Como a Milano le scolaresche vennero a salutare l’eroe…”. Oggi ne esistono ancora, di questi eroi? Forse per questo, ricorda Bracalini, Francesco Cavallotti scrisse con amara ironia che si temeva che “il popolo rubasse il morto per farlo parlare”.
Oggi, per Cattaneo, parla Bracalini. Altrimenti sarebbe di nuovo silenzio. Si sa, sono parole fastidiose, come il ricordare i sotterfugi italiani per annacquare il funerale o, peggio ancora, “la dispersione colpevole dei manoscritti e la mancata intitolazione al suo nome di una modesta via della capitale lombarda”. Si preferirono invece i Bava Beccaris, i Cadorna, i Cialdini. Una toponomastica da stato spietato. Tanto che si poteva a quel punto, fatto trenta, fare anche trentuno: Cadornigrad o Cialdinigrad o Beccarisgrad. Uguale.
Ma per Cattaneo neanche una rotatoria, un passar via veloce che neanche te ne saresti accorto.
Nato in pieno “napoleonismo” che riportò Milano alla perdita dei diritti civili e all’avvio dell’architettura dello Stato italiano, per nulla sereno dal punto di vista economico, al punto da ricordarcelo nello scritto giovanile “Se fossi ricco”, Cattaneo assaggiò presto gli ambienti “carbonari” e le censure col ritorno degli austriaci, ma… tenendosi fuori dalle schermaglie, ricorda Bracalini, egli puntava al sodo. Eccolo: “Uno Stato è una gente e una terra”. Esattamente quello che non era più quella Milano, quella Lombardia. Esattamente ciò che era il Canton Ticino che già ammirava, corteggiava, frequentava per via amicale.
Malaticcio, costretto a insegnare in condizioni proibitive, Cattaneo, ricorda Bracalini, si dedicò all’inevitabile svolta pubblicistica. Passò nel giornalismo “scientifico”, di ricerca, di analisi, di inchiesta su tutto ciò che era frutto dell’ingegno umano, dalla poetica alla linguistica all’industria, passò appunto tutto il resto della sua vita, producendo saggi di portata enciclopedica (non a caso fu Romagnosi l’impronta e il metodo che lo accompagnarono nel suo pensare e scrivere).
Nacquero così gli Annali universali di statistica, ma mentre studiava, guardava con sospetto e distacco ai “sciori de Milan”, quella borghesiuccia che scodinzolava dietro al regnante di turno. Che dire? Traditori ieri… traditori oggi.
Cattaneo, spiega bene Bracalini, non ci mise né due né tre ad arrivare al Politecnico, la sua sconfinata raccolta di scritti che, in più edizioni, fino all’età più matura, lo accompagnò nello sforzo di “esortare gli italiani a studi più severi e concreti”. Per essere al pari col resto d’Europa. Scritto quasi 200 anni or sono, fa decisamente impressione.
“La scienza è forza”, scriveva, ma la scienza era tutto, era la filologia e la storia, e mentre Mazzini scriveva di unità e altre storie, mentre gli italiani leggevano “cuore”, Cattaneo lombardissimamente, informava dal Politecnico delle scoperte e delle invenzioni e del progresso degli altri popoli. Cattaneo fu l’internet, il web della prima e seconda metà dell’Ottocento lombardo. Scriveva delle strade ferrate belghe, delle tariffe negli Stati Uniti, del telegrafo nel Bengala…
Ma ecco come si poteva arrivare all’apice del progresso… Magistralmente Romano Bracalini colpisce e affonda il lettore: “progresso e incivilimento scaturiscono dalla lotta incessante degli uomini e dal loro contributo personale”… con “la convinzione che per ridurre i motivi di contrasto bisognava rendere le singole individualità più autonome possibili, libere di aggregarsi e di costituirsi sulla base di comuni interessi etnici, linguistici, culturali”.
Tombola!
E “non poteva – per Cattaneo – esserci incivilimento di un popolo alle libertà politiche ed economiche” senza queste stesse libertà. Niente progresso, niente benessere. Stato centrale: sottosviluppo.
L’esatta fotografia del paese reale oggi. Cattaneo l’avrebbe voluto, questo paese, figlio – almeno per il Nord – di una federazione indipendente con l’Austria. Lombardia e Veneto rispondevano ai requisiti.
D’altra parte, come ripercorre con sintetica precisione Bracalini, proprio nelle Notizie naturali e civili su la Lombardia, Cattaneo riscopre la modernità “politica nei Comuni, nelle città-stato, nelle autonomie locali”. Il diritto municipale fu la geniale intuizione del medioevo, un diritto paradigma dell’Europa che nacque attorno alle abbazie, al monachesimo e ai liberi comuni. Quello che dovrebbe tornare ad essere se ci si staccasse dai cadaveri odierni degli stati nazione privi di sovranità. Se oggi tornasse Cattaneo, forse non sarebbe più esule. Non glielo permetteremmo più.
In assenza di leader e di menti illuminate, ci servirebbe oggi un nuovo Cattaneo, uno capace di gridare, davanti ai tanti Alessandro Manzoni prestati alla lingua e alla cultura del sistema, che “l’è un spauresg”, un senza coraggio. E’ vero, servono le palle. Sta tutto qui il problema della politica italiana, non avere “lo spirito delle barricate”. Lo ammise pure Cattaneo dopo le 5 Giornate: “Al primo levar del sole tutta la mia nidiata è corsa a razzolar nel letamaio del re”.
Lo aveva capito già Cattaneo, come mette per inciso Bracalini citandolo: “Il nemico nostro più formidabile non è Radetzky”. Mamma mia, quanta modernità e quanto fu “visionario” Cattaneo. Non è forse vero che oggi continuano a cercare il nemico esterno, per distrarci? Ieri come oggi i grandi distrattori approfittano di un popolo sonnambulo, che si accoda, che non ha coraggio, che ha perso la memoria di sé. Che razzola, s’intende chi fa politica, nel letamaio del re.
Carlo Cattaneo dovrebbe essere una lettura obbligatoria nelle scuole. Già dalla Svizzera scrive Bracalini, Cattaneo osservava che “Il regionalismo era il massimo che lo stato centralista monarchico poteva concedere”.
Che fine hanno fatto o faranno anche i timidi referendum consultivi di Lombardia e Veneto, a quasi 40 anni dalla nascita delle regioni? Siamo rimasti alla monarchia centralista, camuffata.
Rileggiamo, anzi, leggiamo Cattaneo. Almeno questo ci resta da fare per immaginare cosa sia la libertà, “l’Italia fatta e disfatta”.
Oggi mentre da Mattarella a Renzi al commissario anticorruzione, tutti riconoscono a Milano la superiorità morale e materiale dinanzi alla capitale dell’impero, Cattaneo risponderebbe cosi: “Ma che ci sto a fare in mezzo a quei bagoloni? Mi metterebbero facilmente nel sacco”. E a chi lo esortava a restare in Italia rispondeva: “Ah, mi torni a Castagnola!”. Noi invece purtroppo dobbiamo restare.
“Cattaneo – Il sogno dell’Italia federale e dell’autonomia dei popoli”, di Romano Bracalini, Libreria San Giorgio Editore, pagg.227, 15 euro