di BENEDETTA BAIOCCHI – Un servizio illuminante di Marco Castelnuovo, Milena Gabanelli e Martina Pennisi sul Corriere della Sera dal titolo
Informazione online: il «tutto gratis» ha un prezzo altissimo
dice come funziona oggi l’informazione.
Si legge: “Immaginate di frequentare un ristorante e di scoprire che ha deciso di dare ai suoi clienti cibo, servizio e coperto tutto gratis. Non solo: il ristorante aprirà un punto vendita a ogni angolo, quindi potrete abbuffarvi senza sosta a qualsiasi ora, visto che è sempre aperto. Come è possibile? Guardate le tovagliette, le scritte e le immagini sui muri: sono tutte pubblicità con cui il ristorante pensa di riuscire a sostenersi. Giorno dopo giorno però le cose cambiano. La qualità del cibo si abbassa fino a mandare in ospedale qualcuno. Non si esclude che il cibo sia scaduto o che vengano serviti avanzi di altri commensali. I locali diventano sporchi e malandati. Quanto può durare un sistema del genere? E se in gioco non ci fosse l’audace esperimento del nostro ristoratore immaginario, ma l’intero sistema dell’informazione? Vale a dire il principio su cui si basa la democrazia, dove le scelte consapevoli passano attraverso la consultazione di notizie verificate e imparziali. Non sarebbe il caso di preoccuparsi? O, tornando alla metafora del cibo gratuito, ricominciare a pagare per quello che si mangia?”.
“In gioco c’è la verità, e la verità ha un costo”, dice correttamente il servizio. Che sfodera numeri chiari: dal 2007 ad oggi, si è passati da 6,1 a 2,6 milioni di copie di giornali venduti. La pubblicità ha perso 1,3 miliardi di euro e quella nello specifico sui giornali, è crollata dal 31 al 13%.
Non si dica che è perché i giornali sono scadenti e i giornalisti inaffidabili. Semplicemente è che internet ha spostato il luogo in cui andiamo in edicola. Sul telefono tutto è gratis. Già, ma chi fa le notizie non può lavorare gratis. Poi ci si è messo anche il governo, anzi, i governi, a tagliare fino a eliminare i contributi all’editoria, unico salvavita in una editoria che non ha armi per difendersi dalla concorrenza sleale di google e facebook, veri e propri editori digitali che si spacciano però per altro.
Ogni giorno almeno 12 milioni di lettori leggono qualche notizia su internet dai media. Ma i dati duci che la pubblicità online è cresciuta passando da 950 milioni a 2,9 miliardi di euro. Meno del previsto, dicono i numeri dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano.
Dove finiscono i soldi? Agli editori? Per pagare gli stipendi di chi cerca e scrive le notizie? No. “Il 75% finisce nelle casse dei cosiddetti Over the Top, ovvero Google e Facebook. Sono loro che hanno meglio saputo interpretare e condizionare la rivoluzione della vendita degli spot in tempo reale con aste automatiche in Rete. E sono sempre Google e Facebook che beneficiano della circolazione di notizie online sulle proprie piattaforme, motivo per cui, per esempio, la legge sul diritto d’autore in discussione a Bruxelles vuole imporre loro un pagamento per l’utilizzo delle anteprime delle notizie”. Capito?
Chi lavora non guadagna, chi gestisce la rete incassa.
La pubblicità non basta, le notizie girano gratis, i giornali in edicola non si comprano più. “Non solo, la presenza in Rete di chi fa informazione è sempre più impegnativa e, in quanto tale, dispendiosa. Sia perché impone una redazione ampia (una ventina di persone regolarmente contrattualizzate, solo per il presidio delle breaking news dell’online, ndr. Questo secondo il Corriere. In realtà i siti online che contrattualizzano sono rarissimi) aperta 24 ore 7 giorni su 7. (…). La concorrenza infine non premia la qualità”. E questa è una sacrosanta verità, alla faccia di chi invoca ancora il liberismo, ideologia ottocentesca.
A decidere le sorti della qualità dell’informazione e quindi della democrazia, non c’è una stampa libera che fa inchieste. Macchè.
“Una delle fonti di traffico è Apple News (la selezione di notizie proposta dall’iPhone). Funziona così: pesca automaticamente le pagine più cliccate in quel momento. Capita molto spesso che non scelga la fonte della notizia, ma un portale su cui è stata riproposta, e che godrà del beneficio dei clic e delle conseguenti entrate pubblicitarie. In sostanza un articolo riscritto e magari anche un po’ manipolato, con il solo costo dello stipendio di un redattore seduto al computer, può valere più della notizia originaria scovata, verificata e confezionata dall’inviato del sito che l’ha pubblicata inizialmente e che deve farsi carico di spese più consistenti, legate al tempo necessario e ai costi del viaggio. Anche quando si cerca una notizia su Google non c’è garanzia che il primo risultato sia l’articolo fatto dall’inviato andato sul posto. Potrebbe benissimo essere una ripresa «fatta in casa», ma con un utilizzo di parole chiave «ad effetto» che la posizionano meglio sul motore di ricerca”.
Insomma, una minestra riscaldata, “rubata” e considerata autorevole solo perché più seguita.
“Negli Stati Uniti il New York Times ha puntato sulla qualità, e al sito si accede solo abbonandosi: i profitti hanno superato quelli della pubblicità online con 3 milioni di sottoscrittori. Nel Regno Unito il Guardian, per tenere alta la qualità, chiede «un sostegno» ai suoi lettori digitali: hanno aderito in più di un milione di persone. In Italia la maggior parte dei quotidiani ha un paywall: chi ha un muro oltre il quale non si può consultare gli articoli gratis, chi differenzia tra articoli gratis e a pagamento. Ma gli utenti non sono entusiasti: preferiscono leggere senza pagare nulla. Domanda: se la notizia vale zero, che notizia è?”.
“In conclusione, per tutti i siti, ergere un paywall, o forme di abbonamento è l’unico (e sano) modo per assicurare un futuro all’informazione. E alla verità, che conta, e costa”.
Milena Gabanelli, accompagnano il servizio ad un video, spiega le regole del gioco.
“Presupposto. Solo se siamo informati in modo obiettivo e verificato, possiamo fare scelte consapevoli. Bene! Dietro a una notizia c’è un giornalista che gli dedica tempo e un editore che lo paga raccogliendo i soldi da chi compra il giornale e dalla pubblicità. Se non paghi nulla perché sul web è tutta disponibile e gratis, la partita la gioca la pubblicità. Qualche numero: nel 2007 la vendita dei giornali di carta ogni giorno superava i 6 milioni di copie. Nel 2018 la vendita di copie digitali e cartacee è scesa a 2,6 milioni. Mentre gli utenti che ogni giorno consultano almeno un sito di informazione online sono 12,2 milioni.
In 10 anni la pubblicità su tutta la stampa è scesa del 18% mentre quella su internet è passata da 90 milioni a 2,9 miliardi. Ma 2,2 miliardi finiscono nelle casse di facebook e google ovvero le piattaforme su cui girano anche le notizie. Per i giornali dunque sono diminuite le due fonti di ricavi ma sono aumentati i costi perché la presenza in rete impone una redazione aperta 24 ore su 24 7 giorni su 7.
E poi ci sono tutti i siti che non hanno dietro un giornale di carta (in totale sono almeno 150) e nessuno riesce a stare in piedi da solo con la pubblicità. Bisogna fare molti click e quindi pettegolezzi scosciamenti e sensazionalismi a gogo.
Tradotto: cala la qualità, meno inviati, e tanti collaboratori pagati 15 euro ad articolo quando va bene. E non ne spenderai 4 in un biglietto di metro per andare a verificare sul posto una notizia.
Il New Times ha scelto : “Cari lettori, volete notizie di qualità? Abbonatevi al sito”. Oggi viaggia a quota 3 milioni di abbonati. Mentre nel Regno Unito, il Guardian ha chiesto ai suoi lettori digitali di sostenerlo.Hanno aderito più di un milione.
In Italia sui siti dei maggiori quotidiani, un po’ leggi e un po’ paghi. Su tutti gli altri è tutto gratis.
Allora, vogliamo una informazione un tanto al chilo e decisa dagli imperscrutabili algoritmi di google o apple news o la verità?
Perché questo è in gioco, la verità. E ha un costo. Se a tenere viva una informazione sono i click, allora è bene sapere che l’unico sito che sta in piedi di sola pubblicità è youporn”.