di STEFANIA PIAZZO – C’è una frase, due righe in tutto, che sono rimaste scolpite nella mia memoria di cronista politica. Queste: “Seppure involontariamente, si sono modificate radicalmente le classifiche esistenti in materia di risorse pubbliche pro capite fruite dalle varie aree e soprattutto – il che è ancora meno accettabile – si è finito talvolta col finanziare i ceti più ricchi di una regione povera mediante i prelievi sui ceti più poveri di una regione ricca”. L’ultimo periodo è perentorio, direi anzi fulminante.
Sta a dire che i poveri del Nord sono stati tassati per mantenere i ricchi del Sud. Guardate che è non solo rivoluzionaria, ma persino eretica. Scommetto la mia casa, i miei cani, che pochi politici, persino del Nord, non hanno sufficiente memoria per ricordare l’autorevole fonte che ha scritto, anzi, pubblicato questo passaggio dialettico che basterebbe, citato ogni tanto, anche per i politici padani debolucci in cultura, che leggono solo i titoli e non i pezzi, a inchiodare i loro antagonisti che vedono nell’abbandono della questione settentrionale e del federalismo, la loro massima aspirazione politica. Due ignoranze che insieme purtroppo non si annientano ma come in algebra danno segno positivo.
Il mio predecessore alla Padania, Giuseppe Baiocchi, un giorno mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: vai in Vescovado a Milano, domani mattina. E salutami don Zappa. Era il responsabile per la comunicazione sociale. Io andai, lasciai le consegne di lavoro ai colleghi, Baiocchi mi aveva fatta da poco capo delle redazioni politica-economia-esteri della Padania. Per un giorno pensai ad altro e andai ad ascoltare in platea la presentazione di un libricino dal titolo intrigante:
“Sulla questione fiscale”. Autori la Commissione diocesana “Giustizia e pace” della Diocesi di Milano. Restai folgorata. Capii perché il mio direttore, detestato dai massoni padani (ce n’erano e ce ne sono), mi aveva mandata, facendo sapere al portavoce dell’allora cardinal Martini, che il giornale del Nord, la Padania, c’era.
Mi chiedo ancora oggi, a 17 anni di distanza da quella dichiarazione sfacciata di intenti della diocesi di Milano, quanto la politica del Nord avrebbe potuto fare per il bene comune, dialogando con quel pezzo fertile di società civile, che affrontava giù dal pulpito ma sul sagrato, tra la gente, la questione fiscale del Nord. Fu un’occasione brutalmente sprecata, sguaiatamente sostituita da riforme posticce e deludenti. Una aspettativa tradita.
Scriveva Martini nella presentazione del libretto che custodisco gelosamente nella mia libreria: “La “questione fiscale” è una delle questioni più complesse e ardue da affrontare: non è un tema né facile, né comodo; rimanda ad argomenti più radicali attinenti la stessa concezione di società, di Stato, di democrazia; suscita diverse e talvolta contrapposte valutazioni… A mostrare la difficoltà del tema concorre anche la costatazione del fatto che se ne parla relativamente poco nelle esposizioni correnti della dottrina sociale della Chiesa. Eppure la questione fiscale ha un rilievo sociale e politico rilevante nella vita e nell’azione degli Stati”. Il libretto era il seguito e la sintesi di altri lavori, nati negli anni caldi della questione settentrionale. Nel 1996, l’anno della Lega sul Po, la diocesi pubblicò “Autonomie regionali e Federalismo solidale”, “per realizzare un sistema regional-federalista”, scriveva Martini! Ma chiudeva sperando che questo dibattito potesse “far crescere, nel concreto e non solo nelle indispensabili dichiarazioni di principio, quella moralità personale e pubblica di cui si avverte il bisogno”.
Moralità personale e pubblica per fare il federalismo. E’ per questo che il progetto del federalismo è andato in vacca. E rischia ancora di andarci. Per la tenace ignoranza della classe politica e per l’avarizia etica che la rappresenta.