di ROMANO BRACALINI – La “questione settentrionale”, speculare alla “questione meridionale”, si collega alla genesi dell’unità. Impossibile scinderle. E a dare avviso dell’avvenuta nascita di entrambe fu Giustino Fortunato, meridionalista e bastian contrario, con la nota sentenza: «Due Italie non solo economicamente diverse ma moralmente diseguali». Era il 1877 e ce n’era di tempo per far tesoro della lezione. Non se ne fece nulla. Il pietismo nazionale prese per buona solo la prima parte della sentenza, e tralasciò di prendere in considerazione la seconda, che era poi la più rilevante; politici e sociologi si affannarono a farci credere che bastava colmare il divario economico e il problema sarebbe stato risolto. Ci riuscì a suo modo il fascismo che nel 1931 impose di non usare più la denominazione “Mezzogiorno”.
Il Mezzogiorno nella “nuova Italia” cominciava a Sud della Sicilia. Quindi il problema non esisteva più. Era solo rimandato. Le clientele
democristiane del dopoguerra lo riportarono a galla. La questione settentrionale covava sotto la cenere. Queste ultime elezioni l’hanno clamorosamente
riportata alla ribalta con una novità di fondo che smentisce gli ottimismi di maniera: parallelamente alla “questione settentrionale” sollevata anzitutto dalla Lega Nord, An e Udc hanno automaticamente assunto la rappresentanza politica degli interessi clientelari del Centro-Sud. E così la questione, lungi dall’essere risolta e ricondotta a una “normalità” dialettica, rischia di radicalizzarsi in uno scontro identitario/ideologico. In realtà non si tratta tanto di palanche (anche di quelle), ma essenzialmente di due modelli di vita difficilmente conciliabili. Giovanni Papini, campione d’enfasi, diceva che l’Italia è «un ponte soleggiato tra il regno degli elfi e il paese dei “ginn”, tra i Nibelungen e le Mille e una Notte».
Persino la geografia, oltre alla storia e alla culture singolari, complottava contro l’ordinato sviluppo di un Paese diseguale, nella metafora di un Nord carolingio e solerte, abituato a tirare la carretta, e di un Sud lamentoso che delega il potere ai mazzieri, come al tempo di Crispi e Giolitti, con la Sicilia sorta di emirato arabo. Poco o nulla li aveva tenuti insieme dall’Ottocento in poi. Non lo spirito d’intrapresa, non lo stile dei traffici e dei commerci, non la diffidenza connaturata contro l’invadenza dello Stato inefficiente e burocratico; per contro le memorie, le relazioni sociali, l’idea stessa di rappresentanza della politica, contro l’appalto del voto, le libere istituzioni, il valore etico de lavoro, erano elementi di divisione e nulla che unisse. Capitalismo mercantile
e liberi imprenditori al Nord, feudalesimo al Sud. Mezzadria e piccola proprietà contro latifondo.
Ceti produttivi contro ceti parassitari, con la caterva di magistrati, prefetti, carabinieri, questurini nei ruoli dell’impiego statale.
Non si riuscì a comporre una storia unitaria e solidale nemmeno col melting pot dell’immigrazione meridionale alla Fiat e nelle grandi industrie del Nord e nemmeno con i battaglioni reclutati al Sud nella grande guerra che avrebbe dovuto cementare il sentimento nazionale che non c’era. La “questione settentrionale”, senza trovare la minima comprensione, venne bollata dalla politica clientelare e assistenziale come una rivolta tribale di ricchi, di gente pasciuta che “non voleva pagare le tasse”, un rigurgito di egoismo poco simpatico. Poco ascolto era stato dato al disagio diffuso al Nord, c’era una vasta area antisistema che cercava d’essere rappresentata, benché anche al Nord continui a pesare il retaggio ideologico che ingrossa il partito dell’immobilismo e impedisce le riforme.
Anche agli stranieri l’Italia appare dinamica ed europea per metà, con l’altra metà sonnolenta e preda della malavita. Si analizzano con sentimento di crescente impotenza il disordine e le disfunzioni dello stato borbonico alla luce di un pragmatismo che accentua il rifiuto e il senso di estraneità. Le
genti delle valli del Nord sentono più acutamente il richiamo di una tradizione di sobrietà e di parsimonia, col culto dell’onestà e del lavoro, che altrove latita. Interpretano il malessere come una macchia e il senso di autorità della divisa come un intrusione. L’ostacolo è lo Stato stesso, lo Stato che nega le autonomie, viste come un pericolo per l’unità fittizia, che non ha mai fatto una politica del territorio, mai scommesso sulle città, mai investito sulle periferie, ha solo accumulato centro su centro e imposto lo statalismo sulle libertà. Sul Corriere di mercoledi 16 giugno 2004 Angelo Panebianco scrisse che la “questione settentrionale”, che pareva rientrata, sembra sul punto di riaprirsi. Sarebbe un errore, questa volta, far finta di nulla.
(da Il Federalismo, anno 2004, direttore responsabile Stefania Piazzo)