di ENZO TRENTIN – Sia pure inconsciamente questa sembra essere l’aspirazione di una parte dell’indipendentismo; quella almeno che persegue la cosiddetta via istituzionale, ignorando che i riferimenti che spesso fanno (a proposito) della Scozia e della Catalogna sono inadatti. Vogliono cambiare il governo con il consenso del governo.
Infatti, se la Scozia ha avuto il suo referendum, lo deve a un esercizio della democrazia difficilmente riscontrabile in Italia. E una volta ottenuto il placet dal governo del Regno Unito (proprio per un diverso funzionamento della democrazia), il governo di His Majesty non si è astenuto dal far tutto quanto in suo potere per avere una risposta delle urne che scacciasse la minaccia secessionista.
Anche la Catalogna è spesso citata in maniera poco pertinente. Infatti, qui si persegue la via istituzionale perché esiste un’ampia autonomia che tuttavia non consente un referendum per l’indipendenza. Se questo si farà, sarà al di fuori del quadro istituzionale vigente, tant’è vero che il governo spagnolo ha fatto e sta facendo di tutto per disinnescarlo. Dunque se i catalani otterranno l’indipendenza sarà per effetto di una secessione.
È di questi ultimissimi giorni la notizia che il Ministero dell’Interno italiano ha deciso di non consentire l’utilizzo della certificazione che attesta la regolare iscrizione del cittadino nelle liste elettorali del Comune di residenza, [http://www.ilgazzettino.it/nordest/primopiano/referendum_autonomia_veneto_tessera_elettorale_negata_viminale-3201522.html ] motivo per cui in questi giorni Palazzo Balbi sta cercando di concordare con le prefetture una soluzione alternativa. Un problema tecnico che accende il dibattito politico, con la Lega Nord che grida al «boicottaggio romano» e il Partito Democratico che ironizza sull’ostacolo organizzativo.
Un modo per (?) dire o anticipare ai lombardo-veneti: “fatevi un po’ il referendum consultivo che vi pare [che è legislativamente inefficace ed è un furto di democrazia. NdR]; noi governo non ne terremo conto”. Insomma, sembra un paradosso: voler cambiare un governo che per un verso o per l’altro non piace, con il consenso di quel governo.
Vero è, che tutti i popoli che dall’inizio del XX secolo ad oggi hanno ottenuto l’indipendenza l’hanno avuta in grazia di differenti circostanze e percorsi. E i Trattati internazionali sono serviti solo a creare un clima intellettuale. Quasi mai sono serviti per appellarsi a tribunali internazionali. Se questi avessero l’efficacia delle magniloquenti dichiarazioni di principio per i quali sono stati costituiti, sicuramente i popoli: palestinese, basco, curdo, saharawi, occitano, bretone, corso ed altri ancora che l’elenco sarebbe lungo, avrebbero già ottenuto l’autodeterminazione.
Sembra che l’indipendentismo che persegue la via istituzionale (quello veneto, per esempio), ignori che lo Stato italiano è sempre stato sordo, per non dire ostile, alle istanze provenienti dal settentrione.
A documentarlo ci ha pensato quasi involontariamente Bruno Pederoda con un libro (di cui suggeriamo la lettura) dal titolo: «Tra macerie e miserie di una regione sacrificata – Veneto 1916-1924» © 1999 – Piazza Editore – Silea (TV), dal quale traiamo alcune informazioni e stralciamo taluni brani.
Giusto in questo periodo un po’ dappertutto i cultori delle scorciatoie celebrano il centenario della Grande Guerra, e sono schierati per un’improvvisa e travolgente reviviscenza di amor patrio che alimenta l’inguaribile propensione italica ad adulterare la Storia. La stessa vicenda che insegnata a scuola sentenzia come l’esercito italiano, sconfitto a Caporetto, risorse sul Piave e travolse definitivamente il nemico nella battaglia di Vittorio Veneto. Sugli avvenimenti compresi tra il novembre 1917 e il giugno 1918 è stesa una cortina di silenzio. Lo stesso mutismo che avvolge le vicende delle popolazioni venete nell’immediato dopoguerra.
Per esempio, sia sull’altipiano di Asiago sia lungo il corso del Piave, le popolazioni furono evacuate perché d’intralcio alle operazioni militari. I soldati delle parti avverse, spesso a corto di rifornimenti e affamate (in particolare gli austro-ungarici) si gettarono su ogni bene mobile e immobile dei civili. Quando queste popolazioni riuscirono a ritornare ai luoghi d’origine non trovarono più alcun armento, né attrezzo agricolo, né case (per lo più diroccate), né i loro arredi. Non poterono nemmeno riprendere l’agricoltura di sostentamento; i campi erano tutt’altro che coltivabili perché mancavano i buoi, gli strumenti di lavoro, e soprattutto perché i campi celavano e continuarono a nascondere ad ogni passo insidie di morte.
Un’aspra polemica presto infuriò intorno ai criteri che presiedevano all’intera ricostruzione dei paesi distrutti, alla rifusione completa dei beni, degli animali e degli attrezzi agricoli che il governo promise. Quando si dovette ammettere che “la gratitudine dei liberati verso i liberatori (fu questo il frutto più amaro) risultò qualche volta offuscata da malintesi, da contrasti, da antagonismi”; quando apparve incontrovertibile che era indispensabile “unificare una buona volta in un saldo organismo dotato di semplicità e di competenza specifica l’attività ricostruttrice”, il Governo varò il R.D. 9 gennaio 1919, n. 41 con cui s’istituiva il Ministero delle Terre Liberate; che nacque a Roma ed ebbe sede a Treviso.
Tuttavia questo Ministero si comportò quasi come le “creature” volute da Umberto Bossi, che ebbe l’ardire di spacciare per riforma l’inaugurazione delle sedi distaccate dei dicasteri di Economia, Semplificazione e Riforme aperte a Monza nel 2011. Ossia, il nulla!
Nel “Ministerino” di Villa Margherita a Treviso tutti sembrano afferrati dal demone della “esagerazione: una casa di due piani si pensa e si vuole debba diventare almeno di quattro; una serena facciata di una casa di onesti borghesi debba diventare per lo meno la facciata del Louvre, il campanile debba rifarsi o più alto o più tozzo, l’osteria debba mutarsi in un bar”. La gente del luogo non reagisce, non denuncia indignata, subisce, un po’ complice, un po’ interdetta, un po’ rassegnata. “Un qualunque geometra venuto quassù alle dipendenze dello Stato – reparto terre liberate – ha creduto di poter diventare un ricostruttore e insieme un interprete del paese. Questi funzionari, disegnatori e ingegneri da Genio Civile, posti sul luogo, hanno potuto fare quello che liberi architetti, di grande ingegno, pur con l’anima, le pupille e la tradizione di queste terre perché qui nati e ispiratisi, non hanno potuto. Vi sono uomini di altissimo valore cui non fu consentito di metter su un mattone e dovettero rimanersene in disparte ad assistere allo scempio”.
A Nervesa, Valdobbiadene, S. Biagio, Ormelle, Zenson, sull’altipiano di Asiago e in cento altri paesi, che sono stati rasi al suolo; dove non un muro è stato rizzato, dove la popolazione vive in frettolose baracche in numero esorbitante, dove centinaia e centinaia di persone non hanno un ricovero, dove i profughi ritornati, se dovessero trascorrervi l’inverno sarebbero condannati a morire. Si rinnova per ben tre volte l’erezione di tali baracche che complessivamente costarono più della ricostruzione degli edifici abbattuti.
È una storia che sembra ripetersi anche oggi a ogni scossa tellurica che colpisce lo stivale.
Le perdite subite dalla popolazione in seguito a comportamenti, diciamo così “scorretti”, dei nostri soldati erano state ingentissime dopo la rotta di Caporetto, tra Tagliamento e Piave, ed anche al di là dell’uno e al di qua dell’altro fiume. Finita la guerra, era uscito il decreto 16 novembre 1918 sull’indennizzo dei danni di guerra in generale, dal quale però era stata stralciata la parte relativa ai danni provocati dal nostro esercito. Fu contemporaneamente diffusa la voce che, in forza dello stralcio, il pagamento sarebbe stato immediato, sicché “migliaia e migliaia di danneggiati, lusingati dal Comunicato Ufficiale, presentarono le loro domande.
Nessuno aveva però pensato all’incidenza delle procedure, che tramutò l’immediato in cronologicamente imprevedibile. “La Commissione per ora raccoglie; poi protocollerà; poi elencherà; poi comincerà le singole istruttorie; vorrà sapere dai ricorrenti, che non lo sanno (perché erano sfollati), quali sono i reparti militari che hanno recato il danno; si sentirà rispondere che quel determinato reparto o non si trovava sul sito indicato o quando vi giunse il danno già si era verificato, o quando ne partì il danno non sussisteva”.
La mentalità del funzionario statale, civile o militare che sia, è quella che è, e solo un ordine scritto superiore ha il potere di ammorbidirla. Per lui esiste il Regolamento ma che va sempre e comunque rispettato. “Se gli sbandati di Caporetto del novembre 1917 penetrarono e si rifornirono nelle case private abbandonate per togliersi la stanchezza e la fame della ritirata, e per salvarsi dal freddo; se le truppe operanti asportavano dalle case rurali scorte e dai campi derrate; se calpestavano raccolti; si tagliavano piante e dalle case urbane asportavano il mobilio; non lo fecero per commettere forsennati vandalismi (fu anche così, ahimè, ma era prudente non dirlo) ma per utilizzazione a proprio vantaggio, e cioè a vantaggio dell’esercito e della patria.”
Neppure il nome sacro della Patria commuove la burocrazia. Dall’alto, dal Ministero della Guerra e del Commissariato militare di Verona, non erano emanati correttivi razionali: sette mesi dopo l’accorata denuncia non una virgola procedurale era stata spostata. Le Commissioni consultive borghesi, si sentirono allora in dovere di pronunciarsi pubblicamente sulla “costante offesa del diritto dei cittadini, obbligati così per il mancato pagamento a vivere in uno stato di deplorevole disagio che tanto maggiore sarà nell’imminente stagione invernale”. L’accusa è incentrata proprio sul fatto che “si richiede ai cittadini la precisa indicazione dei corpi militari che asportarono, o danneggiarono, o distrussero i mobili e immobili, mentre è noto ed evidente che la cittadinanza tutta si trova nell’impossibilità di fornire tale indicazione (…) e i diversi reparti si succedevano nella medesima abitazione in forma disordinata e tumultuaria, combinandosi talvolta nella stessa giornata”.
In altre parole, non era sufficiente la precisa denuncia del furto e del saccheggio, erano altresì indispensabili nome, cognome e indirizzo del ladro! “Con telegramma ministeriale prima, con istruzioni e altri telegrammi poi, fu stabilito e confermato che si desse un indennizzo pari a tre mensilità del sussidio di cui godevano i profughi rimpatriati dopo il 27 gennaio 1919, e che da tale beneficio fossero esclusi i rimpatriati anteriormente”.
Perché la discriminante del 27 gennaio? Neppure gli organi competenti sanno spiegarlo, salvo supporre che si tratti di un espediente per risparmiare qualche migliaio di lire. A farne le spese sono principalmente quei poveracci che la leva di massa ordinata da Cadorna aveva rastrellato oltre Piave e che, dopo Vittorio Veneto, erano corsi per primi nei vicini paesi abbandonati dal nemico per riabbracciare i loro cari. “Tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni che il 6 e 7 novembre 1917 furono concentrati oltre il Piave a Treviso e inviati a lavorare alle dipendenze del Genio Militare nelle immediate retrovie vissero un anno ignorando la sorte delle loro famiglie. Non ebbero il pacco vestiario né il premio di mobilitazione come richiamati, non furono neppure sussidiati come profughi perché salariati dal Genio Militare e non ebbero nemmeno i tre mesi di sussidio anticipato per il rimpatrio perché tutti volarono alle loro case, anche se rase al suolo, prima del 27 gennaio, data il tale provvedimento”. Così rendiconta la Gazzetta Trevisana in più edizioni nel 1919.
Quando, nel giugno 1919, al ministero Orlando subentrò il premierato Nitti, le lingue improvvisamente si sciolsero. Francesco Saverio Nitti aveva ricoperto la carica di Ministro del Tesoro, “ispirandosi all’irriducibile avversione verso i veneti che non ha mai nascosto”. Paladino dello sviluppo del Mezzogiorno, che secondo i suoi acrobatici calcoli aveva subito per decenni lo sfruttamento del Nord, Nitti vedeva nel Ministero per le Terre Liberate la minaccia di un dirottamento verso il settentrione di risorse da destinare invece alla sua terra. Finché era rimasto al Ministero del Tesoro aveva elevato un muro burocratico tra il “problema veneto” e le casse dello Stato; ora che rivestiva la più alta carica di Governo era deciso a sopprimere il Ministero di recente istituzione e a sostituirlo “con un segretariato alle dipendenze del Ministero dell’Interno”.
Il deputato socialista Giovanni Cosattini, friulano, prese di petto i pezzi grossi del regime; tra i quali il ministro uscente delle Terre Liberate, e lo stesso Orlando, premier della Vittoria. Il repubblicano Guido Bergamo fornì le prove del degrado della pubblica amministrazione, più simile ormai a un’associazione per delinquere che a un organo fondamentale dello Stato. Il ruolo esercitato dall’apparato ministeriale nel mantenimento degli equilibri su cui si regge l’unità di un Paese diversificato e contraddittorio come l’Italia, è ben evidenziato dal caso De Nava, il ministro calabrese chiamato a reggere il dicastero del Tesoro. “L’ostilità di S. E. Giuseppe De Nava, Ministro del Tesoro, verso le popolazioni venete non è più oggi mistero per alcuno, e ci è purtroppo rivelata anche dalla nota frase con la quale egli intendeva offrirci la dimostrazione di aver il Governo assolto ogni suo dovere verso di noi: «Per i veneti ho già provveduto ad usura; per la mia Calabria non ho ancora fatto nulla».”
In quel periodo Luigi Barzini sulle pagine del Corriere della sera riconosce che tra interventi del Genio, sussidi ai disoccupati, anticipi e crediti, non si è riusciti a rimettere in movimento la macchina della ricostruzione economica. “Per il risarcimento integrale e definitivo dei danni che è quello che le popolazioni aspettano e che è il fulcro dell’opera ricostruttiva, il governo non ha pagato finora in denaro per mezzo dei suoi organi competenti, agenti delle imposte e intendenti di finanza, che una quarantina di milioni. Ciò significa che se si continuasse di questo passo la liquidazione dei risarcimenti si estenderebbe sopra un periodo di oltre cento anni.”
Ma sì che importa! Attraverso le accise sui carburanti non stiamo ancora pagando i danni del terremoto di Messina del 1908, e le spese della guerra Libica del 1911-12?
Guido Bergamo (nel 1921 e nel 1924 eletto alla Camera tra le file dei Repubblicani) tentò di ripristinare il colloquio tra centro e periferia promuovendo un incontro, a Montebelluna (TV), di rappresentanti dei Comuni e delle diverse organizzazioni interessate al problema. Costituì un indubbio successo l’avvenuto concorso “di 40 Comuni, di 47 sezioni repubblicane, di 54 camere del lavoro, leghe e cooperative”. L’effervescenza dell’assemblea si riflette nell’ordine del giorno approvato, che delega l’on. Bergamo “a condurre l’azione presso il Governo, senza il Governo, contro il Governo”, e impegna tutti i presenti “a costringere volenti o nolenti le amministrazioni comunali ad agire collettivamente e contemporaneamente per scuotere una buona volta l’apatia e l’indifferenza del Governo e indurlo a garantire il pagamento dei danni”.
Da questo momento il periodico La Riscossa accentuerà l’impegno in favore dei danneggiati con tutto il suo fiero impeto, talvolta incauto, ma sempre capace di larga risonanza. Contemporaneamente e all’incirca sul medesimo piano avevano preso a muoversi i Comuni retti dai popolari, e ormai era diventata comune la tendenza a raccogliersi intorno ai sindaci, come autorità più schiettamente rappresentative della volontà della base e dei suoi più genuini interessi, e per giunta al di sopra delle parti per impegno d’onore. Era venuto così a costituirsi una specie di “movimento dei sindaci”.
Subirà la stessa sorte dell’omonima organizzazione composta di 400 amministrazioni comunali venete che nel febbraio 2010 ha elaborato una proposta di legge che prevedeva di assegnare ai Comuni una compartecipazione ai gettiti Irpef pari al 20%. Non se n’è fatto niente. Tutto passato sotto silenzio. Tutto dimenticato!
Insomma, se esiste un’etica per molte categorie di persone (militari, medici, avvocati e altri ancora), perché chi vuole l’indipendenza dovrebbe accettare di concertare l’autodeterminazione con lo Stato e la sua classe politico-burocratica? Costoro non hanno, forse, dimostrato per più di un secolo d’averne una tutta… “particolare”?
Anche su questi fatti e riflessioni c’è chi si domanda se non sarebbe meglio perseguire la secessione, dopo aver presentato alle popolazioni interessate un nuovo progetto istituzionale, sul quale raccogliere le implementazioni e il consenso degli aventi diritto a votare un apposito referendum deliberativo autogestito?
Non sarebbe questo il miglior compito di un partito o dei partiti sedicenti indipendentisti, anziché concorrere alle elezioni di quello Stato che non riconoscono come il proprio?
Attenzione, poi, coloro che optano per la secessione sono convinti del fatto che quando si tratta di trascinare la popolazione per indurla a materializzare un’azione qualsiasi, bisogna agire su di essa con rapide suggestioni. E in tal caso è necessario che la folla sia già predisposta da determinate circostanze. È indispensabile che il soggetto il quale vuole trascinarla possieda almeno le qualità del prestigio e dell’attendibilità. Condizioni che il referendum digitale autogestito per l’indipendenza del Veneto tenutosi nel 2014 sono da molti messe in dubbio.
In conclusione chi si schiera per l’indipendenza dovrebbe “orientare” il partito sedicente tale, all’elaborazione di formule istituzionali innovative, e alla loro divulgazione presso l’opinione pubblica, perché è da tale lavoro che potrebbe scaturire una leadership che oggi sembra mancare.